Amarcord: Ottavio Bianchi

Ottavio BIANCHI è stato calciatore azzurro. Arrivó a Napoli nel 1966. Poi ne fu allenatore dal 1985 al 1989. Ed inoltre nel 93.Infine dirigente nel 1993 e 1996.«Sono stato fortunatissimo perché ho potuto fare la mia carriera nonostante incidenti gravissimi (il primo a 17 anni). Ho iniziato a giocare da bambino. Quando mi parlavano di sacrifici, mi veniva da ridere. Pensavo a mio padre tipografo che tornava a casa a notte fonda. A 17 anni debuttai in serie B in Brescia-Parma. Giocai malissimo. I vecchi mi facevano correre di qua e di là come un cavallo senza briglie».«Nel 1966 arriva la chiamata del Napoli. La squadra del mio destino. C’era Bruno Pesaola come tecnico. Tra i compagni Omar Sivori e Josè Altafini. Grande esperienza. Arrivai anche in Nazionale ma l’ambiente azzurro non mi piaceva. Lo dissi subito. Io pensavo che in Nazionale avrebbero dovuto andare i migliori e invece mi resi conto che spesso le scelte erano geo-politiche».«Ho sempre avuto un carattere difficile. E infatti, anche per motivi diciamo così sindacali, il presidente del Napoli Corrado Ferlaino mi mandò per punizione all’Atalanta. Una tappa fondamentale, visto che proprio allora (nel 1972) decisi di metter su casa a Bergamo. Trovai come presidente Achille Bortolotti: figura carismatica, dal carattere non facile. Poi approdai al Milan di Rivera ma la mia carriera era già in buona parte compromessa. Per via degli infortuni, in pratica giocavo senza ginocchia. Feci un anno a Cagliari e poi la svolta nel 1976 alla Spal. Iniziai come giocatore, finii come allenatore. Mi chiesero di sedermi in panchina. Ci provai e mi accorsi che non era poi così male». «Dopo proseguii a Mantova e quindi alla Triestina. Fino alla nuova chiamata di Achille Bortolotti. L’Atalanta, per la prima e unica volta, era sprofondata in serie C. Bisognava risalire subito. Al consiglio di amministrazione parlai chiaro: non volevo avere a che fare con intermediari o strane figure. Era l’unico modo per lavorare senza condizionamenti. E non sono mai stato un sergente di ferro come si dice. Le maniere forti a volte servono e altre no. Ai miei giocatori ho sempre detto che se mi facevano vincere senza allenarsi avrei portato loro il caffè a letto». «L’Atalanta tornó in B. Io trovai la panchina dell’Avellino in A. Dopo la salvezza passai al Como e arrivò quindi la chiamata del Napoli.Mi volle Allodi, anche se non ci volevo andare perché ero convinto che in quell’ambiente era impossibile vincere. Dissi a Ferlaino: vengo solo se mi garantite una gestione molto severa. Mi accontentarono.Maradona era un giocatore straordinario e bravissimo ragazzo, poi rovinato da amicizie e frequentazioni sbagliate. Ma non vincemmo lo scudetto solo per lui. Andai via quando capii che era meglio per l’ambiente. Andai a Roma su richiesta del presidente Dino Viola. Non ero troppo convinto, sapevo che la piazza era complicata. Ma mi piaceva vivere un’avventura accanto ad un grande personaggio. Morì poco dopo. Cominciò la presidenza di Ciarrapico e capii che era meglio cambiare aria. Sostanzialmente non mi sono trovato bene anche se arrivammo in finale di Coppa Uefa. Tornai Napoli. Era in difficoltà, Ferlaino mi chiese di dare una mano. Da direttore tecnico chiamai Marcello Lippi sulla panchina del Napoli. Poi Pellegrini mi portò all’Inter e dopo poche mesi cedette la società a Massimo Moratti. Quella interista fu un’esperienza insignificante. Ultima esperienza alla Fiorentina come allenatore e come presidente prima del fallimento e del crollo in C2. Mi chiamò un amico, Mario Sconcerti. Non mi ero reso conto che la mia carenza nei rapporti extra-calcistici non mi avrebbe consentito di sopravvivere. Il calcio lì c’entrava poco. Non avrei dovuto andare a Firenze. Nereo Rocco me l’aveva detto: non andare mai alla Fiorentina». «Con Diego avevamo una comunicazione strana, personalissima, che nessuno dei due per pudore ha mai fatto trapelare, perché eravamo due caratteri completamente diversi. Mi fanno sempre la stessa domanda “gestire Maradona deve essere stato difficile?”, ed io rispondo sempre “gestire chi si crede Maradona è stato molto più difficile”.Nessun uomo al mondo, anche culturalmente più preparato, anche con estrazione sociale diversa, sarebbe stato capace di gestire la pressione che aveva Diego.Diego era solo, povero ragazzo. Aveva il mondo addosso sin da quando era piccolo. A quindici anni era già un passaparola. Tutti approfittavano della sua generosità intellettuale. Diceva sempre di sì. Agli amici, agli pseudo-amici. La mia giustificazione dei suoi eccessi è sempre stata questa. Nessuno di noi sarebbe stato in grado di sopravvivere.Quello che mi crea rabbia però, è che se tutti l’avessero aiutato… da noi si dice “per un padre è molto più facile dire di sì al figlio” . Se qualche volta, chi gli stava molto vicino, gli avesse detto di no, invece di cavalcare l’onda del grande personaggio, del grande campione… Tentavo di convincerlo a non correre così tanto. Mi rispondeva: “Lei ha ragione ma io voglio vivere con l’acceleratore al massimo”. Lì ho capito che non ero in grado di entrare nella sua testa. Lui aveva scelto così, e non potevo farci niente.Non ero all’altezza e non potevo permettermi di indirizzare il suo dopo lavoro, ma quelle volte che ci trovavamo da soli e analizzavamo i nostri percorsi, usciva fuori una persona completamente diversa da quella che raccontate voi giornalisti. Una persona semplice, umile, a disposizione, modesta. Proprio l’opposto di quello che appariva fuori perché era il suo personaggio. Lui raramente sbagliava, ma se lo facevano gli altri non l’ho mai sentito criticare. Non come certi mediocri… Per dire, quando facevo esordire un giovane era felicissimo, gli regalava le scarpe”.”Il mio migliore allenatore è stato Bruno Pesaola per la sua grande capacità di sdrammatizzare, mentre i migliori compagni di squadra sono stati Omar Sivori e Dino Zoff con cui ho giocato a Napoli. Tra i presidenti Ferlaino croce e delizia, con Achille Bortolotti grandi contrasti e Dino Viola un signore.La cosa migliore è che ho lanciato un’infinità di giovani da Donadoni a Cannavaro, da De Napoli a Ferrara, da Maiellaro a Baiano. Del resto, hanno lanciato anche me a 17 anni… Per me chi merita, al di là dello stipendio e dell’anagrafe, deve giocare.Credo sostanzialmente di essere figlio di un’altra epoca».»«Oggi non mi appassiona il calcio ma seguo sempre solo il Napoli in tv. Una volta il San Paolo mi dedicò un coro. Lo riascolto nella mia mente.Napoli è un ambiente unico. A Como dovevo fare il piromane e lí invece il pompiere. Ma la signorilità, l’intelligenza e l’originalità dei Napoletani non l’ho trovata mai da nessuna parte» .

Fonte: la poesa del calcio-gruppo di facebook

Pubblicato da Alessandro Lugli

Alessandro Lugli è nato a Napoli e ivi risiede. Poeta, giornalista pubblicista e cantante. Direttore di vari blog da lui creati.